Rough Aunties

Rough Aunties e’ il nuovo film di Kim Longinotto, straordinaria documentarista inglese nota per i suoi precedenti e premiati lavori come Shinjuku Boys e Divorce Iranian Style.
Con questo suo ultimo film, la regista si e’ gia’ aggiudicata il primo
premio all’ IDFA nel 2008 e il premio per miglior ‘World Documentary’
al Sundance di quest’anno.

Rough Aunties e’ un
documentario in stile osservativo, girato in video e senza pretese
estetiche di alcun tipo, basato quasi interamente sui personaggi e le
loro storie. Kim ha seguito per 10 settimane un gruppo di donne Sud
Africane che lavorano per un’associazione, la Bobbi Bear, che aiuta
bambini e bambine in situazioni di abuso. Questo documentario e’
straordinario per molti e diversi motivi, ma non e’ facile da guardare.
Il film si apre con un colloquio tra una bambina di undici o dodici
anni, e Mildred,
una delle rough aunties. La ragazzina e’ stata struprata da un vicino
di casa, e Mildred la ascolta e la aiuta a raccontare la violenza che
ha subito con l’aiuto di un orsacchiotto giallo di pezza. Mildered la
incoraggia ad applicare su ogni parte del corpo dell’orsacchiotto un
cerotto per indicare dove e’ stata violata, e a nominare quello che le
e’ successo. E il tono del film e’ segnato. Questa scena iniziale e’
lacerante perche’ costringe chi guarda a rapportarsi con il tema della
violenza sessuale da un particolarissimo punto di vista – e cioe’ ci
costringe ad assumerla come un dato di fatto, un’esperienza terribile
da cui non e’ possibile distogliere lo sguardo ma che non va taciuta.
La missione di Bobbi Bear e’ di abbattere il muro del silenzio che
circonda l’argomento in Sud Africa e di parlare apertamente di violenza
sessuale. E il film, con i mezzi che gli sono propri, si propone di
fare lo stesso, riuscendoci in pieno. Il film ci costringe a cambiare
radicalmente il nostro approccio verso il tema: la violenza va
nominata, perche’ chi la subisce non ha niente di cui doversi
vergognare e nessuna colpa da espiare. Il film e’ straordinario perche’
riesce nello scardinare l’approccio verso lo stupro che e’ insito nella
cultura Sud Africana come nella nostra, approccio che colpevolizza
sempre la vittima e la costringe al silenzio. E questa e’ sicuramente
la forza piu’ grande del film, la proposta di una prospettiva
coraggiosa, scardinante, femminista, sulla violenza sessuale.
Prospettiva che viene ancora reiterata quando la regista,davanti a una importante platea di 200 persone, racconta dello stupro che lei stessa ha subito.

Certo
anche le donne protagoniste del film, Mildred, Studla, Thuli, Jackie,
Eureka, sono straordinarie nel loro lavoro e nelle loro vite, e
l’immensa bravura di Kim Longinotto nel dipingerle, raccontarle,
ritrarle, e forgiare storie, rende il tutto magnetico e convincente.
Uscire dalla sala con l’impressione di avere conosciuto i personaggi di
persona, ricordarne i nomi e gli sguardi, ecco, questo avviene
raramente con un documentario.

Qui trovate il sito ufficiale del film

e qui un riassunto di Women Make Movies, che distribuisce il film. 

 


 

 

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secreterial apocalypse

apocalypse

 

 

…potrebbe essere un nuovo film-culto, dopo i fantastici ‘Office Killer’ della fantastica Cindy Sherman, e ‘Secretary’ di Steven Sheinberg. 

 

 

 

i just love my job

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dicesi mignotta

Giro da ZeroViolenzaDonne via la Lipperini.

 Di Adriana Terzo

Circola una storiella in questi giorni che dice pressappoco così: un
uomo che fa il massaggiatore: kinesiterapista; una donna che fa la
massaggiatrice: “mignotta”. Un accompagnatore: pianista che suona la
base musicale; accompagnatrice: “mignotta”. Un professionista: uno che
conosce bene il suo lavoro;  una professionista: “mignotta”. Mi fermo
qui ma la lista dei ruoli in cui la versione al femminile degrada in un
immaginario ben consolidato dove la donna è aggettivata al peggio, è
lunghissima. Ora, quante di noi si sono sentite appellate, almeno una
volta nella vita, anche senza esercitare “a professione”, con
l’appellativo di mignotta?
Mio figlio, 24 anni, l’altro giorno: c’è una ragazza del nostro gruppo
che se la spassa un po’ con tutti, sì insomma, una mignottella.
Tamponamento per la strada: energumeno molto incazzato per la sua Rover
ammaccata contro una giovane disattenta in abiti estivi: “Invece che
andà in giro come una zoccola, guarda come cazzo guidi!”. Una mia
amica, docente universitaria un po’  livorosa: è arrivata una
ricercatrice l’altro giorno, che ti devo dire? Tutta truccata, sì
insomma, con una faccia proprio da troia!”.

Un linguaggio diffuso, cui nessuno ormai fa più caso. Eppure io sono
convinta che questo linguaggio meriti più di una riflessione. Perché le
parole forgiano il pensiero e i concetti. Fin da bambini, in famiglia,
a scuola. Questo reiterato sistema di affibbiare alle donne, qualunque
cosa facciano, l’appellativo “mignotta”, è sicuramente una scorciatoia
ma anche il riflesso di come vengono considerate le donne, a qualunque
latitudine. Dunque, se rispetti certi canoni decisi dall’alto (la
chiesa, la borghesia, i poteri maschili) allora va tutto bene. Se
invece decidi di uscire da queste gabbie, il minimo che ti può capitare
è sentirti gridare dietro “mignotta”. Eppure, la definizione della
parola è precisa: concedersi abitualmente ad incontri sessuali per
denaro. C’è un prezzo pattuito in cambio di una prestazione sessuale.
Come mai, invece, ad ogni più sospinto le donne vengono sminuite e
svalorizzate con termini come “mignotta”?

Premesso che, per me, le prostitute andrebbero sacralizzate dagli
uomini per il fondamentale ruolo che svolgono nei loro confronti, ci
possiamo chiedere se questo reiterato modo di squalificare le donne cui
bambine e bambini sono sottoposti fin dalla loro più giovane età, non
crei quell’humus fertile per la violenza contro le donne? Del genere:
siccome non vali niente, siccome in fondo anche tu (come tutte) sei una
mignotta, non ti riconosco come persona, ti violento. E’ una
estremizzazione, certamente, ma non così lontana probabilmente da ciò
che deve esserci nella testa dei violentatori.

Chiedere a tutti, dunque, di usare le parole nel loro giusto
contesto non è solo una questione di linguaggio. Diventa un imperativo
culturale. A mio figlio ho spiegato che quella ragazza voleva solo
divertirsi, che è nel suo diritto. Puoi non condividere il suo
comportamento, puoi anche giudicarlo sconveniente. Ma quella ragazza
non è una “mignotta”. Se tutti noi, uomini ma soprattutto noi donne,
cominciassimo ad indignarci sempre ogniqualvolta sentiamo proferire
questa parola nel contesto sbagliato, forse potremmo consegnare alle
nuove generazioni un mondo più giusto e più rispettoso di tutte/i. A
costo di litigare a cena, regolarmente, con i miei amici maschi – cosa
che accade abitualmente – ma anche, purtroppo, con le mie amiche.

 

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divinazione

Warning: post intimista, proseguite la lettura solo se vi interessano i cazzi miei (e possibilmente i tarocchi)

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Sexism in the movement, reprise

Oggi un gruppo di anarchofemministe si e’ appropriato di uno spazio alla "Anarchist Conference 2009" di Londra e ha proiettato il video che potete vedere qui sotto, in risposta al disinteresse degli organizzatori della conferenza ad inserire nella conferenza dei tavoli tematici sul femminismo e in risposta alle discussioni scatenatesi nel movimento e sui forum sul tema del sessismo all’interno dei movimenti e sul femminismo. Con banale puntualita’ la tematica scatena reazioni forti e riscalda gli animi. Le anarchofemministe hanno ritenuto di rispondere agli attacchi ricevuti con strategie che ci piacciono, appropriandosi di spazi di parola senza chiedere il permesso, e comunicando attraverso il video, un sito, sms, forum eccetera. 

Il video puo’ piacere o meno, ma chapeau alle donne che non hanno paura. 

Trovate il loro comunicato e una serie di link utili a questo indirizzo

 

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Bunnies (heart) Robots

 

by Katian Witchger

A stop motion animation to "true love will find you in the end", a love story between bunnies and robots. I’m in tears in tears in tears. It’s so cute. Have you found your robot yet?

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Sugar – the film

SUGAR, di Anna Boden & Ryan Fleck, USA / 2008 / 114 min / English

Sugar, seconda collaborazione tra i registi e scrittori Anna Boden e Ryan Fleck (Half time Nelson, 2006) esce oggi nei cinema inglesi. Nominato per il gran premio della giuria al Sundance 2008, il film racconta la storia di un ragazzo della Repubblica Dominicana, Sugar, che si allena in un campo di addestramento statunitense per giocatori di baseball dell’isola. Il campo e’ diretto da una squadra americana, e moltissimi giovani ragazzi passano anni della propria vita ad allenarsi sperando di venire ingaggiati per giocare negli USA. Sugar, insieme ad altri, viene scelto e mandato nello Iowa. Dopo una stagione di successi, inesorabilemente comincia il declino, e Sugar comincia a dubitare del sogno americano a cui ha dedicato gran parte della propria vita. Fuggito dal campo da baseball, cerca di inserirsi nella faticosa vita di migrante a New York.

 

Sugar e’ un film dalle molte pecche, che pero’ vengono oscurate dalla forza del soggetto. A tratti gli autori si lasciano andare a un sentimentalismo un po’ melenso, ogni tanto cadono in dei luoghi comuni un po’ banali, e il ritmo non e’ azzeccatissimo. Nonostante questo, la tematica della migrazione e dello sport e’ affascinante, ed e’ trattata con intelligenza e sensibilita’. Boden e Ryan hanno passato molti mesi in Repubblica Dominicana, girando di campo in campo a intervistare giovani giocatori (hanno raccolto oltre 600 interviste) per trovare degli attori non professionisti disposti a prendere parte al film. Il protagonista, Algenis Perez Soto, e’ ottimo nel ruolo, con il suo sguardo intenso ed espressivo, e dopo aver girato il film, ha abbandonato la sua carriera di aspirante giocatore di baseball, per una carriera di aspirante attore. Il film evita di essere didattico, ma riesce comunque a rimanere critico verso le organizzazioni sportive che comprano i giocatori stranieri per qualche soldo e poi se ne liberano dopo averli spremuti per qualche stagione, forti della sicurezza di avere accesso a una interminabile serie di ragazzi che sognano il successo e una vita lontano dalla poverta’ in cui sono nati. 

 

Sugar e’ intriso di una malinconia di fondo che non diventa mai drammatica, ed e’ un film che vale la pena di vedere. 

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rincorrendo ricorrenze

.c.

e’ solo un altro anno in piu’, mon cherie, non temere. tanti auguri.

spero di essermi presa buona cura di te..ora lasciami a capire e a scorrazzare un po’ da sola. Fai buon viaggio, e a presto.

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work is on my mind

Oggi ho avuto una piccola folgorazione, un po’ preoccupante:

io ultimamente passo 95% del mio tempo a pensare al lavoro.

Come si manifesta questa monomania?

Si manifesta in molti modi, il primo dei quali e’ il piu’ banale e pervasivo di tutti:

  Faccio due lavori
poco appaganti e interessanti, pagati male e che non mi donano
prospettive gioiose per il futuro. Sono oltretutto lavori cosiderati
non molto bene, e con forti connotazioni di genere: sono segretaria e
telefonista.  

In piu’, in uno di questi lavori,
parlo al telefono con persone che si sono laureate da poco, e gli
faccio domande che riguardano la loro situazione lavorativa. Per cui mi
becco molte ore di brevi conversazioni, alcune ripetitive, altre
interessanti, da cui traspaiono in mille piccoli modi le ansie, i
desideri, le frustrazioni e le paure di una generazione di persone
altamente qualificate molto impaurite dal proprio futuro. Chiamo
persone che si sono laureate in Inghilterra, di tutte le nazionalita’.
Parlo con moltissimi Italiani, visto che i miei colleghi mi passano
automaticamente tutti numeri che cominciano con il fatidico +39. Forse
per via della lingua, o chissa’, i connazionali sembrano piu’ inclini a
lasciarsi andare alle chiacchere, e ascolto un sacco di sconforto. Ieri
con una ragazza abbiamo fatto una lunga chiaccherata parlando della sua
situazione al rientro in Italia, parlando di diaspora e fuga. Mi
chiedeva angosciata se secondo me doveva tornare in Inghilterra, che in
Italia era messa male, e mi chiedo veramente quanto devi essere messa
male per chiedere consigli a una telefonista che ti chiama per
un’intervista telefonica. 

   Quando non lavoro,
passo molto tempo a cercare altro lavoro: lavoro migliore, lavoro
pagato meglio, lavoro gratuito ma potenzialmente utile, lavoro
impossibile. Questo comporta passare molto tempo in internet e poi
molto tempo a compilare application form, ad adattare curriculum e a scrivere lettere di presentazione. 

Oggi per esempio in pausa
pranzo sono corsa a un colloquio per uno stage non pagato, in un bar
fighetto dall’altra parte della citta’, davanti a due ragazza
giovanissime e bellissime che si specchiavano negli schermi dei loro
Mac Book Pro aperti, entusiasmo che sprizzava da tutti i pori. Io a
malapena riuscivo a racimolare l’entusiasmo necessario per aprire la
bocca e rispondere alle domande. Anche perche’ poi le preoccupazioni
che mi prendono non sono tanto legate alle mie capacita’ lavorative,
quanto piu’ al mio aspetto fisico, all’abbigliamento, ai capelli. Non
mi prenderanno mai perche’ sono troppo bassa. Non potranno mai
scegliere me, sono 15 anni che non entro da un parrucchiere e si vede.
Ecco, ho le unghie sporche, vedrai che non mi vogliono.
Magari a dirla cosi’ fa anche ridere, ma io non so di venire giudicata per il mio aspetto piu’ che per le mie capacita’: io lo sento. E’ un sentire che affonda le radici nel profono, in maniera completamente irrazionale.

   Poi oltretutto organizzo un cineforum sul tema, intitolato Unemployed Cinema, di
cui trovate il link qui a fianco se vi interessa vedere i film che
proiettiamo. L’ultimo, cha abbiamo visto domenica, e’ CHOP SHOP, e lo
consiglio vivamente, e’ un film ambientato in una strada di Queens, New
York, in un setting incredibile e improbabile, piu’ che NY sembra di
stare in una citta’ africana, e’ una strada di meccanici di auto,
quindi un sacco di vita di strada, di hustling, la
strada e’
diroccatissima e sempre inondata di acqua, e il film segue la vita di
un ragazzino giovanissimo e sua sorella adolescente che cercano di
sopravvivere in una vita completamente assorbita dal lavoro e dalla
sopravvivenza, senza respiro. Il film ha dell’eccezionale perche’
riesce a raccontare della vita di strada di un ragazzino senza cadere
in sentimentalismo, paternalismo, o moralismo di alcun tipo – piuttosto
ti immerge nella quotidianita’ frenetica e senza orizzonti dei due,
sempre dal punto di vista, anche fisicamente basso, del ragazzino. E’
girato a mano e montato
veloce, con uno stile estetico ottimo ma senza essere mai
esteticizzante o pretenzioso. Cattura poi in maniera brutale come il
lavoro e la preoccupazione per i soldi ti cambiano dentro in maniere
che non ti puoi neanche immaginare e di come il potere penetri in ogni
relazione. 

 

   Per tornare al tema iniziale, ci sono poi le conversazioni con gli amici: e
di cosa si parla? di quanto odiamo il lavoro che facciamo, di quanto
non troviamo lavoro, di quanto stiamo cercando lavoro, di quanto ci
pagano, di cosa faremmo se solo…

Con una cara amica ho litigato di brutto, e ancora non ci siamo
appacificate, perche’ siamo state chiamate allo stesso colloquio e per
ragioni che sono troppo lunghe da spiegare, ci siamo scazzate. Ieri
avevo appuntamento con un amico alle 20, io gli ho scritto un sms alle
21 dicendo: "sono uscita ora dal lavoro, che si fa?". Ping Ping, sms di
risposta alle 23: "io invece sono uscito ora…Devo trovare una
soluzione". Oggi bevo una birra con 2 amici italiani appena arrivati a
Londra per imparare l’inglese, e con i visi preoccupati e stupiti mi
raccontano delle loro disavventure di ricerca di un lavoro. …e avanti
cosi’, ad nauseam. Mi sembra di non riuscire ad avere una mezza
conversazione seria con nessuno, senza ritornare a ripetere lo stesso
ritornello maniacale.

Ma che lo dico a fare? Non sono novita’ per nessuno. Pero’ a me
ormai anche lo schema analitico della precarieta’ sta un po’ stretto – qui si parla di qualcosa di diverso

 

 

 

COMUNQUE, non parlo
da una posizione di sconforto o depressione, tutt’altro, ma piuttosto
osservo questa omnipresenza del tema lavoro con rabbia – perche’ e’
limitante e sottrae energia, tempo e spazio mentale a cio’ di altro che
invece vorrei fare, di cui vorrei discutere e sentire, come i nostri
desideri, i pensieri un po’ random, le forme delle foglie…

 

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regionale

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