io, che sono un riccio,

pungo, ferisco, infetto. é difficile avvicinarmi senza farsi graffiare. non ho un cuore commestibile come il riccio albino della foto, dunque pochi hanno la pazienza di prendermi tra le loro mani con la delicatezza necessaria per non restare feriti. pochi hanno la voglia di togliere una ad una le spine, con dolcezza, di inserire la punta della lama nella carne e di aprirmi a metá per scoprire cosa celi il guscio di sabbia. 

mi sento molto sola stasera, e non sono brava a creare con le persone che mi circondano e che amo il senso di calore, di vicinanza, quell’elettricitá magica di cui ho bisogno. forse perché non mi accontento facilmente, forse perché il mio desiderio é eccessivo, traboccante, e spaventa anche a me. 

trasmetto gelo quando dentro mi espolde tutto. sono nata cuspide fra un segno di fuoco e un segno di acqua, e spesso vivo nella nebbia emozionale che l’incontro tra i due elementi sprigiona.

vivo tutti i giorni la nevrosi che l’incapacitá di espirimere i miei sentimenti produce, ben sapedo da dove proviene e con il terrore di diventare come nonna, che oltre ad essere fascista e votare pd, é la donna di ghiaccio piú temibile che io conosca.

Dopo alcune riflessioni sulla natura e la necessitá di tenere questo spazio virtuale, decido, unilateralemente, che altro non é e altro non sará mai se non il mio spazio di espressione personale dove la politica e le cose serie non entrano. la categoria é personal, e cosí rimane, e lo uso per comunicare con chi ha voglia di stare ad ascoltare. Non credo di dovere ad altri giustificazioni di alcun tipo. se autoreferenziale deve essere, che lo sia fino in fondo. 

sani.

 

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Uscita di ‘Sacrificio’

Segnalo l’uscita del nuovo romanzo di Giacomo Sartori, ‘Sacrificio’, per Pequod questa settimana.


Contenuto:



Un gruppo di ragazzi in una piccola cittadina dell’Alto Adige. Diego,
Katia, Andrea, Anna e Franco, detto Frank, sono il gruppo sparuto di
giovani "rimasti". Intorno solo montagne, fiumi, valli, un unico bar al
centro dell’unica piazza del paese di tremila anime. Non hanno alcuna
prospettiva per il futuro se non quella di fare il pastore, il
contadino, la guardia forestale come i padri e ancor prima i nonni. I
giorni, le notti, sono tutte uguali, e così l’unica via d’uscita è
ubriacarsi fino a non rimanere in piedi, drogarsi fino a non capire più
niente, mettere in gioco la propria vita come fosse nulla, qualcosa che
non ha valore né importanza. Durante una delle corse sfrenate del
sabato sera a bordo di vecchi e ammaccati pick-up, imbottiti di whisky
e birra, Andrea, il più giovane della compagnia, perde la vita. Diego
viene quasi ammazzato a furia di calci e pugni da Frank, il suo
migliore amico, soltanto per essersi lasciato sfuggire una parola in
più. La violenza diventa l’unico diversivo, ciò che accende ogni cosa,
l’unico modo per sentire di esistere. Giacomo Sartori dipinge
l’affresco della più buia provincia italiana, quella di cui non si
parla mai o raramente sui giornali o in televisione, chiusa in valli
inaccessibili.

 

La vicinanza emotiva a chi lo ha scritto e il grande rispetto che ho per lui come scrittore mi spinge a segnalarlo anche prima di averlo letto. Ne approfitto per citare il suo precedente romanzo, Anatomia della Battaglia, uscito nel 2005 per Sironi, e postare un’intervista che ho preso in prestito qui.

 

 

Intervista a Giacomo Sartori
Sergio Rotino, Ferndandel, 01.03.2006
Un libro duro, Anatomia della battaglia, assolutamente non
pietistico. L’ ultimo lavoro in ordine cronologico di Giacomo Sartori
offre al lettore pagine di estrema densità che, attraverso le figure
contrapposte quanto inconciliabili di un figlio e di un padre, parlano
della Storia, della nostra Storia, intrisa di ideologie mal digerite o
mai lasciate veramente alle spalle. Sartori maneggia con forza questo
dualismo, nel tentativo titanico di arrivare a una non conciliazione
laica, con sullo sfondo tracce della lezione di Böll e la petrosità di
una terra spigolosa qual è quella del Trentino.
Stilos ha intervistato l’autore.

Lei vive già da molti anni in Francia, ma Anatomia della battaglia è fortemente legato al Trentino, sua terra d’origine.

Ho passato gran parte della mia vita da adulto all’estero, anche fuori
dall’Europa, ma in effetti con miei romanzi è rispuntato il
Trentino-Alto Adige. Ciò non corrisponde affatto a una decisione
intenzionale. Però, tra i tanti progetti che uno scrittore ha in testa,
alcuni vanno in porto, altri no, e in questo nulla è casuale.
Evidentemente la mia terra di origine mi aveva marcato molto più di
quanto ne fossi cosciente, quindi avevo in un certo senso “da dire la
mia”, sentivo la necessità di descrivere questa parte d’Italia in cui
sono cresciuto… e con la quale, a dire la verità, ho un rapporto
tutt’altro che facile.

Il romanzo narra di un padre fascista e di un figlio inetto,
che negli anni Settanta entra a far parte di un gruppo terroristico per
un breve periodo. Perché ha insistito su questo dualismo e sulla
vistosa debolezza psicologica del figlio, che è il personaggio
principale e il narratore della storia?

Per scrivere i miei romanzi non parto da tesi preconcette.
Anche quando ne preparo uno e perciò leggo e studio molto, nella
scrittura il mio approccio resta intuitivo. Mi attira il poter arrivare
a esprimermi con strumenti che sento profondamente miei, che condensano
il mio modo di essere e le mie conoscenze. Qui sono partito dalla
figura di un vecchio che era stato fascista – e che ha continuato anche
dopo la fine del fascismo a definirsi tale – ispirata per molti versi a
mio padre. Ma poi, nello scrivere il romanzo, è spuntato fuori un
figlio schierato a sinistra e sono venuti fuori gli anni Settanta, e il
terrorismo, e la fragilità della condizione attuale contrapposta alla
sicumera del ventennio fascista, e la rete di legami tra tutti questi
elementi. Nella redazione finale è effettivamente presente questa
dualità dove il padre rappresenta la forza e il figlio la fragilità,
contrapposizione tutt’altro che casuale. Ma è vero anche il contrario:
per molti aspetti la debolezza del figlio è una grande forza e la forza
del padre è una irredimibile fragilità. Il figlio, benché fallito, è
sicuramente più maturo del padre. Comunque le varie contrapposizioni
sono un punto di arrivo, con tutto il margine di incertezza legato a
qualsiasi processo di ricerca di verità, per definizione vano, non un
punto di partenza.

Il suo romanzo può essere letto come una critica bipartisan
alle esperienze del fascismo e dell’estrema sinistra? Intese entrambe
come etica e non come pura ideologia?

Assolutamente no. Credo che un romanzo, un buon romanzo, non
possa e non deva dare delle risposte semplici. Sia il fascismo che il
terrorismo degli anni 70-80 sono dei fenomeni estremamente complessi.
Per quanto mi riguarda, ritengo che ogni semplificazione e ogni
superficiale confronto siano da evitare. È compito degli storici
cercare di semplificare e di trovare i minimi comuni denominatori. I
romanzieri colgono invece l’estrema complessità e la contraddittorietà
del reale, lavorano anche su quanto nella coscienza comune – o
addirittura nella ricerca storica – è ancora rimosso. Certo, un testo
letterario può suggerire delle piste, ma per l’appunto sono solo delle
ipotesi, delle intuizioni. Nel mio testo non c’è una sola tesi, ma una
maglia di tesi che si eludono e si contraddicono a vicenda. Tesi non
solo storiche, ma psicologiche e psicanalitiche. Resta il fatto che i
legami tra terrorismo degli anni 70 e gli anni della Resistenza, tra
una riattivazione di una logica della violenza negli anni 70 e il modo
in cui l’Italia è uscita dal fascismo, tra il non fare i conti con il
passato e, in un certo senso, riviverlo, mi sembrano innegabili. Il
vero problema credo sia la rimozione del fascismo e delle pesanti
eredità che esso ha lasciato, e forse lascia ancora, operata ancora
oggi dagli italiani. Nel romanzo questa rimozione non c’è, il che mi
permette maggiore libertà di movimento. Ciò non vuol dire che fascismo
e terrorismo di matrice comunista, anche se entrambi utilizzano la
violenza, e almeno questo in comune lo hanno, vengano posti sullo
stesso piano.

Siamo di fronte a una visione di assoluta irredimibilità nel
rapporto con la Storia, da parte dell’Italia e di tutto l’Occidente?

Mi sembra che noi occidentali abbiamo un po’ la tendenza a
considerarci al di sopra della Storia. Preferiamo rappresentarci un
mondo asettico dove tutto è sotto controllo, e la Storia è in un certo
senso evacuata. E mi sembra che noi italiani, anche grazie al
sessantennio di pace di cui abbiamo goduto, facciamo ancor più questo
errore. In realtà siamo profondamente calati nella Storia e, in un
certo senso, ne siamo tutti delle vittime. Le nostre famiglie sono
profondamente marcate dalla Storia del Novecento. Il Novecento per
l’Europa è stato spaventoso, e i traumi storici non si riassorbono
certo nello spazio di una o due generazioni.

In Anatomia della battaglia si inseguono varie metafore, tutte
occlusive, che vietano l’avvicinamento, fra i due protagonisti. Se
questo desiderio esiste, ci dicono quanto sia impraticabile, perché non
si possono riconciliare idee e identità, epoche, caratteri?

Sì, certo, anche le metafore sono utilizzate per esprimere la
distanza tra padre e figlio. In tutti i miei romanzi le metafore e i
paragoni hanno moltissimo spazio. Proprio per l’approccio non cerebrale
che esse implicano, per la loro carica multisemica, per la loro potenza
evocativa e, nello stesso tempo, per il profondo lavoro sulla lingua
che esse presuppongono e richiedono.

Mi sembra che la presenza ossessiva della morte cementi le
varie parti del romanzo. Tutti i protagonisti, dal narratore risalendo
fino al nonno, hanno a che fare con la morte, come se questa presenza
sia il grado zero da cui guardare le cose, per quanto con grande
difficoltà.

Le tre generazioni presenti in questo libro hanno in comune il
fatto di avere vissuto la guerra, di essersi ritrovate in battaglia.
Per ciascuna di esse la presenza della morte è quindi un dato di fatto,
una esperienza naturale. Secondo me questa è la realtà di moltissime
famiglie italiane, anche se la visione che abbiamo può essere molto
diversa, molto più superficiale e rosea. La Prima guerra mondiale è
stata un’ecatombe; anche la Seconda guerra è stata un evento molto
traumatico, soprattutto è molto presente anche nelle generazioni degli
anni 50 o addirittura dei 60. La guerra era rimossa, ma c’era. Se non
altro nel modo di essere e di ragionare dei genitori. Gli anni 70, il
periodo in cui la generazione di cui parlo è diventata adulta, non sono
stati certo una guerra, ma pur sempre un periodo di estrema violenza,
di morte. Anche lasciando stare il terrorismo, l’eroina – che per molti
versi può essere vista come un seguito dell’ubriacatura politica – ha
falcidiato la mia generazione.

 

 

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volpina

 

vopina che dorme nel mio giardino! 

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pasticcio di polenta

…o anche "polenta disaster"

 Niente, tanto per scrivere qualcosa, posto questa ricetta appena inventata e sperimentata: 

-polenta istantanea cotta in 3 minuti 

-melanzane

-pomodoro 

-ceci

-del formaggio che si scioglie

 

Fatta la polenta la si stende a raffreddare in una terrina bassa e lunga di modo da poterla poi tagliare a striscioline piu’ tardi.

Intanto si friggono friggono friggono le melanzane. Poi si fa partire una specie di sugo al pomodoro a cui si aggiungono i ceci (previa cottura) e le melanze fritte.

Nel frattempo la polenta dovrebbe essersi raffreddata e rappresa.

Tagliata a striscioline e in una terrina da forno un po’ profonda fate degli strati di : polenta, sugo, formaggio, polenta sugo, formaggio, finche’ non finite gli ingredienti. Via in forno per 20 minuti a 180 gradi.  

 

 Mentre friggete, vi consiglio di ballare e cantare il Chiki-Chiki Precario e sguasciarvi dalle risate:

 
http://www.youtube.com/watch?v=TiWTlSrgALU

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sara’ che e’ primavera

frogs

…e tutto sta espodendo, ma mi sento come se avessi bevuto una boccetta di ecstasy liquida (esiste? mah). 

in realta’ non so se e’ la metafora giusta, mi sento in uno stato di perenne agitazione quando dovrei essere calma e centrata per concentrarmi sullo studio. ho vogli di emozioni e connessione e amore e mille cose, voglio bene a tutti ma desidero un’intensita’ che pochi mi sanno dare. per cui spesso vorrei solo sbattere la testa contro il muro per la frustrazione.

argh. vorrei che passasse.  

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pasta all’uovo strapazzato

Pasta all’uovo strapazzato

come tante altre ricette fast-food fai da te, questa ricetta mi e’ stata insegnata da mio padreio e mio fratello ne andavamo matti da piccoli, e da grandi e’ diventata tipica delle situazioni di stress da studio, indedia totale o pasto veloce a tarda notte. E’ una variazione minimalista sulla ricetta carbonara vegetariana.  

Ingredienti:

-pasta di qualsiasi tipo ma le farfalle sono particolarmente adatte

-due uova

-grana  

Una volta che la pasta ‘ cotta e scolata, spaccateci dentro due uova, il grana e del pepe, girate furibondamente e aspette che l’uovo si cuocia per bene che e’ pericoloso l’uovo crudo. Mangiate davanti al computer con su le cuffie. 

 

 

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Love and words are politics

Sono riuscita ad acchippare un  solo biglietto per il London Lesbian and Gay Film Festival  che e’ appena cominciato ed e’ gia’ quasi completamente sold out (a dispetto di chi dice che non ha piu’ senso fare un festival dedicato ai film LGBTQ, evidentemente un desiderio esiste). 

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ti annoi sull’autobus?

…d’ora in poi mai piu’!

Stando comodamente sedut* sulla tua poltroncina potrai fissare una schermo e guardare te stessa e altri passeggeri annoiati guardare lo schermo. che trip!

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invece se volete farvi quattro risate, guardatevi questo clip segnalato da gerdaphoto

sembra infatti che un gruppo di ricercatori gay abbia finalmente indivuduato il gene che causa orientamenti cristiani e stia sperimentando su dei rattini come impedirne la trasmissione. Anche i genitori di figli cristiani sono sollevati dalla notizia.

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Per il resto, buona giornata a tutte e tutti. io mi butto nel lavoro.

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pelo superfluo

E’ sabato mattina, mi sveglio tardino e mi volto verso il mio unico e fedele compagnio di letto da qualche mese a questa parte (13 pollici, bianco e non e’ mai troppo lontano da me, cos’e’?), faccio colazione con gli ovetti di cioccolata che mi ha mandata la mamma per pasqua, e entro in vena nostalgico/melaconica ascoltando qualche canzone dei CCCP mentre sbircio fuori verso un cielo finalmente un po’ blu.

Questa specie di aria primaverile mi fa pensare alla scorsa primavera e a tutta l’acqua che e’ passata etc etc. (avete capito il sentimento).

Insomma, un anno fa circa si stava occupando in Mayer a Trento e nasceva il Centro Sociale Bruno/2. Ne parlavo in termini entusiasti qui.

Erano momenti emozionanti perche’ non solo si riconquistava e si faceva vivere un palazzo abbandonato da anni, e si lottava per poterlo tenere, ma sopratutto perche’ sembrava che vecchie fratture politico/personali molto dolorose e profonde si stessero incominciando a rimarginare e che stessa nascendo un’esperienza veramente plurale in cui persone diverse potessero apportare le loro sensibilita’ politiche, artistiche, culinarie.

La primavera e’ stata intensa, fitta e emozionante, culminata in una grossa manifestazione nazionale, e piena di feste, concerti, tornei di ping pong, mangiate, azioni, cose da centro sociale. 

Non voglio farla troppo lunga, chi conosce la storia la conosce gia’, la mia personale purga e’ venuta presto, dopo che io e altre donne abbiamo cercato di perlare di femminismo all’interno dello spazio. Questo forse era un passo troppo impegnativo per alcuni uomini e sono esplose delle dinamiche sessiste striscianti e violente che mi hanno lasciata scossa per un bel po’ di tempo. Di nuovo fratture e accuse da parte di compagni e si, compagne a cui comunque ero legata.  

Un attaco particolarmente aggressivo a tarda notte in un corridoio dell’enorme palazzo, in cui mi sono state gridate addosso accuse su accuse da uno degli uomini che avevano piu’ potere nell’occupazione, mi ha spinto a spaccare un ombrello su una ringhiera fino a ridurlo a brandelli dalla rabbia. Vorrei averglielo spaccato in testa. 

E’ passato quasi un anno dagli inizi, e posso dire di essere guarita quasi completamente da questa esperienza. Ho rasato via il superfluo, e tutto questo non mi tocca piu’. Forse presto portei anche ricominciare a fare politica. Con attenzione.

A Trento intanto il Centro Sociale ha una nuova casa, bella, perfetta. Sembra che sia stabile, nessuno parla di sgomberi. Non c’e’ piu’ bisogno che l’esperienza sia plurale e allargata, il cs si e’ richiuso su se stesso e su pochi intimi fidati. Fino alla prossima emergenza. 

 

 

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verde

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