Di cosa parlano gli squatters quando parlano d’amore?

The Mansions

‘Come va la casa?’, ti chiedono con lo sguardo intenso e bruciante. Amano cominciare ogni conversazione così, come ti va la casa? Tra squatter si parla di casa tantissimo, con una premura, un calore e una passione quasi inspiegabili. Quando curi uno luogo, lo aggiusti, lo rendi vivibile, quando trasformi una rovina in uno spazio sicuro e accogliente, e quando conosci il valore etereo di questa sicurezza che potrebbe venirti tolta tra due settimane, due mesi o 10 anni, sei cauto.
Sei cauto e anche molto attento, ricettivo. Lo spazio fisico assume le caratteristiche di una creatura vivente. Per gli squatters la casa è come un animale domestico, un essere di cui prendersi cura e da amare. Gli squatters hanno invisibile antenne che captano i più sottili umori degli spazi che inabitano.
Quando passi la maggior parte del tuo tempo ad occuparti di un luogo, a procurartelo, a farlo tuo, a difenderlo, i pensieri e le ansie legate alla casa diventano una parte integrante del tuo essere.

Le conversazioni sulle abitazioni possono prendere molte, variegate direzioni. Puoi parlare della situazione legale: ‘hai ricevuto I documenti? Quando siete a processo? Come va la preparazione del caso? Com è andata in tribunale? Chi era il giudice? A quando è aggiornata l’udienza? Quando sgomberano? Resisterete?’
Le domande riguardano i servizi, l’allaccio dell’elettrico, dell’acqua, del gas. Riguardano i vicini, il quartiere, gli sbirri e i padroni di casa. “Vi è già venuto a trovare il pardone?” “è venuto solo, o in compagnia?”, “come sono i vicini?”

Fino ad arrivare ai sottili umori, alle sensazioni che un luogo ispira, alle presenze che lo inabitano. Quando entri in spazi vuoti da tempo, che contengono ancora brandelli di altre vite e di altri abitanti, diventi ricettivo ai sottili umori che li attraversano, alle sensazioni che permeano l’aria, alle emozioni che i muri hanno assorbito, e che, inevitabilmente, nel tempo rilasciano. Il tuo benessere, la possibilità di abitare e lavorare in uno spazio, dipendono anche dalla capacità di captare queste sottili presenze, e di conviverci, contenerle o allontanarle.   

Io abito in una casa, the Mansions, dal carattere fortissimo e quasi indomabile. A tratti la odio, ma sto imparando ad ascoltarla e a contrattare una pacifica convivenza. Questa è la storia della nostra relazione.



1. Effra.

The Mansions è costruita proprio sopra al corso di un fiume sotterraneo, l’Effra. L’Effra è un fiume fantasma che scorre attraverso tutto il sud della mia città in cunicoli interrati, fra i tunnel della metropolitana e le fogne. Scorre in profondità, tranquillo e lento, fangoso. Si gonfia e si ritrae a seconda delle precipitazioni stagionali, ma non secca mai, allo stesso modo in cui non gli riesce mai di diventare irruento.
 
Solo sotto the Mansions, sotto la mia casa, il fiume risale, per qualche centinaio di metri, pericolosamente vicino al livello della strada, e tenta di emergere in superficie. Lo fa alla maniera letargica e passiva che lo contraddistingue, senza insistenza, ma con la tranquilla determinazione di chi sa di avere il tempo dalla propria parte.  

Di notte mi parla, questo fiume limaccioso, quando sto sdraiata nel letto e tutto è finalmente avvolto dal silenzio. Quando si spengono gli sterei e le televisioni dei vicini, quando i locali notturni chiudono i battenti, quando i ragazzetti che passano la giornata a bazzicare in strada si ritirano verso i loro loculi e quando anche le sirene della polizia si fanno più rade. In questa ora sospesa della notta sto sdaiata, ferma immobile sulla schiena, rigida sotto troppe coperte. Il silenzio e il buio mi avvolgono e io riesco a sentire il fiume che mormora sotto di me.

Io ipotizzo che si tratti, al massimo, di una ventina di centimetri. Non credo di esagerare, sono ormai molte notti che sto in attento ascolto. Sotto di me le assi del pavimento, dipinte di un bianco scrostato, e, appena più giù, tenuto a bada solo da un compatto strato di argilla, c’è il fiume.

Tra le assi del pavimento si infiltrano fili di aria melmacciosa, che si divertono a trasformarsi in mulinelli nello spazio buio e pauroso sotto il mio letto. Questi fili di aria che si insinuano e giocano a nascondino nel mio materasso, sono verdi e limacciosi, intrisi di sfilacci di alga di cui i cunicoli dell’Effra sono ricchi. Si tratta di un’alga di un verde scuro, tendente al nero, lunga e viscida. Se la guardi dentro l’acqua che scorre, può capitarti di scambiarla per i capelli di una Medusa di fiume, spaventevole.

Insomma, io me ne sto sdraiata in attesa di prendere sonno, mentre i mulinelli di aria bagnata salgono e intridono le coperte, che lentamente si appesantiscono dell’umido che assorbono. Sdraiata sulla schiena, il peso delle coperte mi appesantisce sul petto, mi opprime il respiro. Cerco di rimanere calma, ma immagino particelle di polvere, di cui la casa è ricca, che svolazzano in giro per l’aria, particelle, dicevo, che sicuramente avranno un piccolo invisibile cappuccetto verde di muffa addosso, è inevitabile, mi dico, con questa umidità, che anche la polvere stia ammuffendo qui dentro. E allora ad ogni respiro, milioni di particelle di polvere ammuffita entrano nel mio naso, scendono verso i polmoni e i bronchi e si installano nei miei preziosi alveoli. Sono sicura, a questo punto, che i miei polmoni siano ricoperti da un sottile strato di muffa verde, una specie di coltre morbida e ingannevole che ostacola il naturale scambio di ossigeno fra il sangue e i polmoni. È sicuramente questo il motivo per il quale trovo così difficile svegliarmi presto la mattina, mi dico, convinta. Devo andarmene al più presto di qui. Ne va della mia salute, del mio futuro professionale, della mia vita sociale.
 
E non è solo l’apparato respiratorio a preoccuparmi. Il fiume che mormora sotto di me, lo sento sempre più chiaro e forte ora, mi si sta infiltrando nelle ossa, e le sta inesorabilmente ammollendo. Sento distintamente come stanno diventando spugnosette e porose, deboli. Me ne accorgo quando sollevo qualche oggetto pesante: il radio e l’ulna non fanno la leva che facevano ua volta, non oppongono resistenza al peso che dovrebbe sollevare, ma si piegano un pochino, quasi impercettibilmente. Sia chiaro, parliamo di milionesimi di millimetro, ma io me ne accorgo, lo sento. Io lo so che il fiume sta erodendo il mio corpo, e che nel giro di pochi mesi incomincerò inevitabilmente a incurvarmi, ad rimpicciolirmi, a rattrappirmi. Il fiume lavora con lentezza e tenacia, ma il suo lento scorrere produce danni più profondidi quanto non farebbe una temporanea esondazione.

Una notte durante la quale il mormorio dell’Effra non mi permette di prendere sonno per troppe ore, capisco improvvisamente che quello di cui ha bisogno la casa, la stanza, il mio corpo, è un ricircolo di aria fresca: di aria che provenga dall’eserno, invece che dagli spiragli tra le assi del pavimento. Questa è l’ovvia soluzione, come avevo fatto a non pensarci prima. Mi alzo di scatto e spalanco la finestra: mi affaccio sul cortile interno, una striscia di cemento larga un paio di metri e lunga dieci. Ma anche questa soluzione non sembra portare sollievo. Un muro di mattoni rossi ci separa dall’edificio di fronte. Il cortile è racchiuso tra alti palazzoni, e ha le sembrianze del sottobosco di una giungla tropicale: ci sono piante che crescono dalle crepe nel cemento, piantine in vasetti e arbusti in vasoni, felci che emergono da chissà dove, un muschio denso ricopre i muri, le sedie, il cemento. Un’enorme edera lambisce la finestra e sale verso i piani alti, e le foglie lussureggianti si insinuano nello spazio lasciato vuoto dal vetro. Una nebbiolina sottile si alza da questa foresta pluviale e comincia a penetrare nella camera. Richiudo di scatto, all’attaco di muschi, felci, edere e nebbioline preferisco la polvere ammuffita.   

Mi rinfilo sotto le coperte intrise, sconfitta. Devo andarmene di qui. Ne va della mia salute, del mio futuro professionale, della mia vita sociale. Devo assolutamente riuscire ad andarmene di qui, continuo a ripetermi come un mantra. Piano piano i pensieri di fuga diventano più rumorosi del fiume che mormora, e prendo sonno, esausta.

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One Response to Di cosa parlano gli squatters quando parlano d’amore?

  1. b. says:

    non mi lamenterò mai più dell’inquinamento di pechino. bella gara tra muffa e benzina.
    però molto immaginifico questo post…

    ti auguro un buon risveglio mayday

    :-*
    b.

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