Da Liberazione del 25.11.2008
Vi spiego l’inspiegabile delitto di Verona
di Lea Melandri
Il rapporto tra gli uomini e le donne, il perverso tragico annodamento
di dominio e amore, deve essere davvero la "roccia basilare" contro
cui si arrestano ragione, cultura, responsabilità civile e morale, se,
riguardo alla strage avvenuta in una famiglia di Verona alcuni giorni
fa, né la televisione né i giornali sono andati oltre la nuda cronaca
dei fatti, se a nessuno è venuto in mente di chiedersi la cosa più
banale e più sensata: perché la decisione di una donna di separarsi
riesce a scatenare la furia omicida-suicida dell’uomo che con lei ha
vissuto e visto crescere figli? Non è la prima volta che accade, la
maggior parte dei casi di violenza maschile all’interno della coppia,
negli ultimi anni, è motivata dalla scelta della donna di interrompere
una convivenza divenuta evidentemente insopportabile, da una
affermazione di libertà dovuta al rispetto di se stessa, o al semplice
desiderio di dare una svolta alla propria vita. L’aggettivo
"inspiegabile", che la cronaca usa ormai ritualmente per questi
delitti, è la maschera di una ipocrisia, o comunque di una incuria,
generalizzate, che non accennano a incrinarsi: "inspiegabile" vuol
dire, in questo caso, qualcosa su cui non si vuole riflettere e fare
chiarezza, una evidenza – il volto violento dell’amore – che deve
restare invisibile.
Non ci vogliono conoscenze particolari della vita di relazione e della
vita psichica di un individuo, per sapere che la "normalità" di una
coppia, di una famiglia, così come viene ripetuta fino alla nausea
nelle testimonianze del vicinato, significa che nessuno sa più cosa
succede oltre le pareti della propria casa, del suo cortile, e se lo
sa, tace per quieto vivere o perché all’invadenza della comunità
chiusa paesana non abbiamo saputo finora sostituire nessuna altra
forma, libera e solidale, di socialità. Non serve neppure una
preparazione psicanalitica, per capire quanto sia legata l’idea
proprietaria su cui si è retta storicamente la famiglia – la
dipendenza psicologica, giuridica, morale, affettiva, che essa
struttura, tra marito e moglie, madre e figli – con le pulsioni
aggressive che vi crescono dentro inevitabilmente, e che in taluni
casi provocano gli effetti nefasti che conosciamo.
C’è una responsabilità, si potrebbe dire una colpevolezza, più odiosa
di quella dell’uomo che uccide uccidendosi a sua volta o passando il
resto della sua vita in carcere: è quella di una società – di maschi
prima di tutto, ma anche di donne – che non pronuncia una parola, non
muove un passo, non fa il minimo gesto perché questa infamia che si
protrae da secoli sia almeno portata allo scoperto, analizzata per la
centralità che ha nella vita di tutti, per il peso che ancora sostiene
nel dare alla sfera pubblica la sua apparente autonomia, il suo
arrogante disinteresse per quel retroterra dove, in nome dell’amore,
si consumano una quantità enorme di lavoro e di energie femminili.
Il 25 novembre, come tutti gli anni, ci saranno le rituali
celebrazioni della giornata internazionale di condanna della violenza
contro le donne. Le massime autorità dello Stato, i partiti, le
amministrazioni locali, le associazioni più varie si affacceranno agli
schermi televisivi, nazionali e regionali, per recitare il ritornello
stantio della compassione e della solidarietà di giornata, cioè
dell’indifferenza di sempre. Allo slogan, che è comparso su alcuni
manifesti del Pd – della serie «non lasciamole sole» – verrebbe da
rispondere «meglio sole che mal accompagnate», soprattutto se la
compagnia è quella che discute accanitamente per un mese su chi debba
essere il presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, e non
si cura minimamente dell’influenza che ha la televisione nel
confermare o contrastare modelli di inciviltà, pregiudizi, figure
della violenza in ogni suo aspetto. Il 22 novembre, a Roma c’è stata
una manifestazione di gruppi, associazioni, collettivi femministi e
lesbici, preparata da incontri, assemblee nazionali da un anno a
questa parte. Pur con la presenza di donne di età e storia diverse, è
stata, come già lo scorso anno negli stessi giorni, l’uscita pubblica
di una nuova generazione, consapevole che il privilegio maschile nella
società comincia nelle case, che il potere dell’uomo sulla donna
passa, prima di tutto, da quell’appropriazione del corpo delle donne –
sessualità, capacità generativa e lavorativa – che ancora oggi ha
nella famiglia il suo fondamento "naturale", nella "norma
eterosessuale" la sua copertura ideologica.
Nonostante che gli omicidi quotidiani -di donne, prevalentemente, ma
non solo – abbiano tolto da tempo alla famiglia la sua immagine
tradizionale di "luogo sacro", focolare dell’amore, culla di teneri
affetti, riposo del guerriero, nonostante che la diffusa pedofilia si
annidi proprio nelle stanze che si vorrebbero destinate ad altra
intimità, la famiglia resta il grande rimosso dell’insicurezza
sociale, delle paure reali o ingigantite ad arte, la zona di passioni
"inspiegabili" per una cultura di massa che, per un altro verso,
pretende di portare tutto allo scoperto, e che oggi penetra più o meno
cinicamente, per ragioni scientifiche commerciali, politiche,
moraliste o religiose, fin nelle pieghe più insondabili della nascita,
della morte, della maternità, della malattia.
E’ facile fare una battaglia perché si limiti il porto d’armi, perché
cessi la campagna sicuritaria da parte di politici interessati a
raccogliere consensi giocando sull’emotività della gente più indifesa.
Più difficile è guardare senza orrore e senza arretramenti quel
coltello che compare sulle cucine, sulle tavole, e che somministra
cibo e morte, arma a doppio taglio proprio come il legame che stringe
amore e odio intorno alla coppia, alle parentele, alle convivenze.
All’interno delle case, in nuclei famigliari sempre più ristretti, si
gioca ancora la partita del potere, dell’ingiustizia, dello
sfruttamento, della violenza più resistente a ogni cambiamento, per la
radice antica e per la complessità, contraddittorietà, delle
esperienze che vi sono implicate. Ma c’è, e non da ora, una storia e
una cultura politica di donne che ha osato portare lo sguardo oltre i
confini della polis, scoperchiare mascheramenti ideologici secolari,
riformulare da quell’altrove, cellula prima di ogni forma di dominio,
l’idea stessa di politica. Se, nonostante il pervicace silenzio di cui
è fatta oggetto, torna da più di un secolo a riempire piazze e strade,
si può ancora far finta di non vederla ma non sapere che esiste.