| Un libro duro, Anatomia della battaglia, assolutamente non pietistico. L’ ultimo lavoro in ordine cronologico di Giacomo Sartori
 offre al lettore pagine di estrema densità che, attraverso le figure
 contrapposte quanto inconciliabili di un figlio e di un padre, parlano
 della Storia, della nostra Storia, intrisa di ideologie mal digerite o
 mai lasciate veramente alle spalle. Sartori maneggia con forza questo
 dualismo, nel tentativo titanico di arrivare a una non conciliazione
 laica, con sullo sfondo tracce della lezione di Böll e la petrosità di
 una terra spigolosa qual è quella del Trentino.
 Stilos ha intervistato l’autore.
 			Lei vive già da molti anni in Francia, ma Anatomia della battaglia è fortemente legato al Trentino, sua terra d’origine. 			Ho passato gran parte della mia vita da adulto all’estero, anche fuoridall’Europa, ma in effetti con miei romanzi è rispuntato il
 Trentino-Alto Adige. Ciò non corrisponde affatto a una decisione
 intenzionale. Però, tra i tanti progetti che uno scrittore ha in testa,
 alcuni vanno in porto, altri no, e in questo nulla è casuale.
 Evidentemente la mia terra di origine mi aveva marcato molto più di
 quanto ne fossi cosciente, quindi avevo in un certo senso “da dire la
 mia”, sentivo la necessità di descrivere questa parte d’Italia in cui
 sono cresciuto… e con la quale, a dire la verità, ho un rapporto
 tutt’altro che facile.
 			Il romanzo narra di un padre fascista e di un figlio inetto,che negli anni Settanta entra a far parte di un gruppo terroristico per
 un breve periodo. Perché ha insistito su questo dualismo e sulla
 vistosa debolezza psicologica del figlio, che è il personaggio
 principale e il narratore della storia?
 			Per scrivere i miei romanzi non parto da tesi preconcette.Anche quando ne preparo uno e perciò leggo e studio molto, nella
 scrittura il mio approccio resta intuitivo. Mi attira il poter arrivare
 a esprimermi con strumenti che sento profondamente miei, che condensano
 il mio modo di essere e le mie conoscenze. Qui sono partito dalla
 figura di un vecchio che era stato fascista – e che ha continuato anche
 dopo la fine del fascismo a definirsi tale – ispirata per molti versi a
 mio padre. Ma poi, nello scrivere il romanzo, è spuntato fuori un
 figlio schierato a sinistra e sono venuti fuori gli anni Settanta, e il
 terrorismo, e la fragilità della condizione attuale contrapposta alla
 sicumera del ventennio fascista, e la rete di legami tra tutti questi
 elementi. Nella redazione finale è effettivamente presente questa
 dualità dove il padre rappresenta la forza e il figlio la fragilità,
 contrapposizione tutt’altro che casuale. Ma è vero anche il contrario:
 per molti aspetti la debolezza del figlio è una grande forza e la forza
 del padre è una irredimibile fragilità. Il figlio, benché fallito, è
 sicuramente più maturo del padre. Comunque le varie contrapposizioni
 sono un punto di arrivo, con tutto il margine di incertezza legato a
 qualsiasi processo di ricerca di verità, per definizione vano, non un
 punto di partenza.
 			Il suo romanzo può essere letto come una critica bipartisanalle esperienze del fascismo e dell’estrema sinistra? Intese entrambe
 come etica e non come pura ideologia?
 			Assolutamente no. Credo che un romanzo, un buon romanzo, nonpossa e non deva dare delle risposte semplici. Sia il fascismo che il
 terrorismo degli anni 70-80 sono dei fenomeni estremamente complessi.
 Per quanto mi riguarda, ritengo che ogni semplificazione e ogni
 superficiale confronto siano da evitare. È compito degli storici
 cercare di semplificare e di trovare i minimi comuni denominatori. I
 romanzieri colgono invece l’estrema complessità e la contraddittorietà
 del reale, lavorano anche su quanto nella coscienza comune – o
 addirittura nella ricerca storica – è ancora rimosso. Certo, un testo
 letterario può suggerire delle piste, ma per l’appunto sono solo delle
 ipotesi, delle intuizioni. Nel mio testo non c’è una sola tesi, ma una
 maglia di tesi che si eludono e si contraddicono a vicenda. Tesi non
 solo storiche, ma psicologiche e psicanalitiche. Resta il fatto che i
 legami tra terrorismo degli anni 70 e gli anni della Resistenza, tra
 una riattivazione di una logica della violenza negli anni 70 e il modo
 in cui l’Italia è uscita dal fascismo, tra il non fare i conti con il
 passato e, in un certo senso, riviverlo, mi sembrano innegabili. Il
 vero problema credo sia la rimozione del fascismo e delle pesanti
 eredità che esso ha lasciato, e forse lascia ancora, operata ancora
 oggi dagli italiani. Nel romanzo questa rimozione non c’è, il che mi
 permette maggiore libertà di movimento. Ciò non vuol dire che fascismo
 e terrorismo di matrice comunista, anche se entrambi utilizzano la
 violenza, e almeno questo in comune lo hanno, vengano posti sullo
 stesso piano.
 			Siamo di fronte a una visione di assoluta irredimibilità nelrapporto con la Storia, da parte dell’Italia e di tutto l’Occidente?
 			Mi sembra che noi occidentali abbiamo un po’ la tendenza aconsiderarci al di sopra della Storia. Preferiamo rappresentarci un
 mondo asettico dove tutto è sotto controllo, e la Storia è in un certo
 senso evacuata. E mi sembra che noi italiani, anche grazie al
 sessantennio di pace di cui abbiamo goduto, facciamo ancor più questo
 errore. In realtà siamo profondamente calati nella Storia e, in un
 certo senso, ne siamo tutti delle vittime. Le nostre famiglie sono
 profondamente marcate dalla Storia del Novecento. Il Novecento per
 l’Europa è stato spaventoso, e i traumi storici non si riassorbono
 certo nello spazio di una o due generazioni.
 			In Anatomia della battaglia si inseguono varie metafore, tutteocclusive, che vietano l’avvicinamento, fra i due protagonisti. Se
 questo desiderio esiste, ci dicono quanto sia impraticabile, perché non
 si possono riconciliare idee e identità, epoche, caratteri?
 			Sì, certo, anche le metafore sono utilizzate per esprimere ladistanza tra padre e figlio. In tutti i miei romanzi le metafore e i
 paragoni hanno moltissimo spazio. Proprio per l’approccio non cerebrale
 che esse implicano, per la loro carica multisemica, per la loro potenza
 evocativa e, nello stesso tempo, per il profondo lavoro sulla lingua
 che esse presuppongono e richiedono.
 			Mi sembra che la presenza ossessiva della morte cementi levarie parti del romanzo. Tutti i protagonisti, dal narratore risalendo
 fino al nonno, hanno a che fare con la morte, come se questa presenza
 sia il grado zero da cui guardare le cose, per quanto con grande
 difficoltà.
 			Le tre generazioni presenti in questo libro hanno in comune ilfatto di avere vissuto la guerra, di essersi ritrovate in battaglia.
 Per ciascuna di esse la presenza della morte è quindi un dato di fatto,
 una esperienza naturale. Secondo me questa è la realtà di moltissime
 famiglie italiane, anche se la visione che abbiamo può essere molto
 diversa, molto più superficiale e rosea. La Prima guerra mondiale è
 stata un’ecatombe; anche la Seconda guerra è stata un evento molto
 traumatico, soprattutto è molto presente anche nelle generazioni degli
 anni 50 o addirittura dei 60. La guerra era rimossa, ma c’era. Se non
 altro nel modo di essere e di ragionare dei genitori. Gli anni 70, il
 periodo in cui la generazione di cui parlo è diventata adulta, non sono
 stati certo una guerra, ma pur sempre un periodo di estrema violenza,
 di morte. Anche lasciando stare il terrorismo, l’eroina – che per molti
 versi può essere vista come un seguito dell’ubriacatura politica – ha
 falcidiato la mia generazione.
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