Giro da ZeroViolenzaDonne via la Lipperini.
Di Adriana Terzo
Circola una storiella in questi giorni che dice pressappoco così: un
uomo che fa il massaggiatore: kinesiterapista; una donna che fa la
massaggiatrice: “mignotta”. Un accompagnatore: pianista che suona la
base musicale; accompagnatrice: “mignotta”. Un professionista: uno che
conosce bene il suo lavoro; una professionista: “mignotta”. Mi fermo
qui ma la lista dei ruoli in cui la versione al femminile degrada in un
immaginario ben consolidato dove la donna è aggettivata al peggio, è
lunghissima. Ora, quante di noi si sono sentite appellate, almeno una
volta nella vita, anche senza esercitare “a professione”, con
l’appellativo di mignotta?
Mio figlio, 24 anni, l’altro giorno: c’è una ragazza del nostro gruppo
che se la spassa un po’ con tutti, sì insomma, una mignottella.
Tamponamento per la strada: energumeno molto incazzato per la sua Rover
ammaccata contro una giovane disattenta in abiti estivi: “Invece che
andà in giro come una zoccola, guarda come cazzo guidi!”. Una mia
amica, docente universitaria un po’ livorosa: è arrivata una
ricercatrice l’altro giorno, che ti devo dire? Tutta truccata, sì
insomma, con una faccia proprio da troia!”.
Un linguaggio diffuso, cui nessuno ormai fa più caso. Eppure io sono
convinta che questo linguaggio meriti più di una riflessione. Perché le
parole forgiano il pensiero e i concetti. Fin da bambini, in famiglia,
a scuola. Questo reiterato sistema di affibbiare alle donne, qualunque
cosa facciano, l’appellativo “mignotta”, è sicuramente una scorciatoia
ma anche il riflesso di come vengono considerate le donne, a qualunque
latitudine. Dunque, se rispetti certi canoni decisi dall’alto (la
chiesa, la borghesia, i poteri maschili) allora va tutto bene. Se
invece decidi di uscire da queste gabbie, il minimo che ti può capitare
è sentirti gridare dietro “mignotta”. Eppure, la definizione della
parola è precisa: concedersi abitualmente ad incontri sessuali per
denaro. C’è un prezzo pattuito in cambio di una prestazione sessuale.
Come mai, invece, ad ogni più sospinto le donne vengono sminuite e
svalorizzate con termini come “mignotta”?
Premesso che, per me, le prostitute andrebbero sacralizzate dagli
uomini per il fondamentale ruolo che svolgono nei loro confronti, ci
possiamo chiedere se questo reiterato modo di squalificare le donne cui
bambine e bambini sono sottoposti fin dalla loro più giovane età, non
crei quell’humus fertile per la violenza contro le donne? Del genere:
siccome non vali niente, siccome in fondo anche tu (come tutte) sei una
mignotta, non ti riconosco come persona, ti violento. E’ una
estremizzazione, certamente, ma non così lontana probabilmente da ciò
che deve esserci nella testa dei violentatori.
Chiedere a tutti, dunque, di usare le parole nel loro giusto
contesto non è solo una questione di linguaggio. Diventa un imperativo
culturale. A mio figlio ho spiegato che quella ragazza voleva solo
divertirsi, che è nel suo diritto. Puoi non condividere il suo
comportamento, puoi anche giudicarlo sconveniente. Ma quella ragazza
non è una “mignotta”. Se tutti noi, uomini ma soprattutto noi donne,
cominciassimo ad indignarci sempre ogniqualvolta sentiamo proferire
questa parola nel contesto sbagliato, forse potremmo consegnare alle
nuove generazioni un mondo più giusto e più rispettoso di tutte/i. A
costo di litigare a cena, regolarmente, con i miei amici maschi – cosa
che accade abitualmente – ma anche, purtroppo, con le mie amiche.